Fiori recisi nei territori palestinesi occupati
La produzione e il commercio di fiori recisi su scala globale, se esplorati con occhio critico, rivelano con poco sforzo vicende di abusi e violenze, di sfruttamento, furto di terre, nonché accordi economici e politici di stampo coloniale.
Israele è uno dei massimi esportatori mondali di fiori recisi, nonché uno dei primi a servire il mercato europeo, soprattutto durante il periodo invernale.
La produzione agricola con passaporto israeliano è comunemente circondata da una retorica celebrativa che si focalizza sull’innovazione tecnologica. Più di rado viene invece discusso il dato fondamentale, vale a dire il furto e le violenze che sono il presupposto di quest’intero comparto.
Basti pensare alla questione relativamente nota della sistematica distruzione degli alberi da frutto palestinesi, e in particolar modo degli ulivi, ma anche della stessa produzione di fiori recisi palestinesi, resa estremamente ardua dal controllo israeliano delle risorse idriche e dell’elettricità, dai bombardamenti e dalle chiusure dei confini che portano alla distruzione di un prodotto già di per sé altamente deperibile.
Si tratta di una strategia coloniale che opera su diversi livelli: la perdita di produzione che arreca danno materiale e fiacca il morale degli agricoltori e delle agricoltrici, la violenza simbolica e materiale, la creazione di una tabula rasa come presupposto dell’occupazione di nuove terre da parte dei coloni.
Il mercato dei fiori recisi non è separato da queste violenze, ma ne è intimamente partecipe dal momento in cui gli addetti ai lavori non si pongono il problema o scelgono di ignorare la questione.
Parte del nostro compito, dal mio punto di vista, dovrebbe anche essere quello di informare il nostro pubblico e scegliere di non acquistare materiali vegetali con passaporto israeliano, siano essi rizomi di ranuncoli o fiori recisi reperiti dal grossista. Si tratta però di una questione di cui non sento mai parlare, forse perché le istanze più “progressiste” che iniziano a infiltrare il settore sono spesso cariche di greenwashing e perché le prospettive che hanno più risonanza sul tema dei diritti umani in relazione alla produzione di fiori recisi sono quasi sempre condite dalla retorica del salvatore bianco e prive di sostanza.
Da parte mia, da persona che lavora con i fiori e li coltiva, credo che sia vigliacco nascondersi dietro alla loro bellezza e fingere che essi siano un territorio neutro o una materializzazione dell’idea che i clienti hanno di “natura incontaminata”. Come sempre, la questione è molto più complicata di così e sta a noi fare lo sforzo per tentare di dipanarla.
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